Ho firmato un contratto per una casa nuova: a partire dal 1 luglio vivrò da sola in uno studio, molto spazioso e luminoso, a Ditmas Park. Secondo Google Maps, il mio nuovo indirizzo si trova a Flatbush.
Non secondo questa meravigliosa mappa creata dal New York Times raccogliendo decine di migliaia di entries in cui i cittadini hanno indicato “come si chiama il loro quartiere”. In questa meta-riflessione sulla mappa, da cui viene lo screenshot che ho incollato sopra, si discute sul cambiamento dei confini fra quartieri, sulla nascita di nuove denominazioni, sulle forze socioeconomiche che ci sono spesso dietro questi cambiamenti. Per esempio Crown Heights, il quartiere in cui vivo ora, è uno dei casi presi ad esempio: in teoria, ad ovest di Washinghton Avenue c’è Prospect Heights, ma questo nome evoca l’idea di un quartiere molto più “tranquillo” e “curato” (molto più gentrificato) per cui anche tante persone ad est di questa ipotetica divisione (gente che “tecnicamente” vive a Crown Heights) finisce per dire di vivere a Prospect Heights. Anche il ruolo del mercato immobiliare è interessante: l’articolo prende ad esempio un annuncio realtivo a uno dei blocks disputati: è un affare per Prospect Heights, o uno degli appartamenti più costosi di Crown Heights? Siccome i quartieri cambiano, certe risposte diventano sempre meno “sbagliate”. O meglio, come dice il New York Times su questo punto, forse una risposta giusta non c’è.
Invito: come si chiama il vostro quartiere, ed è una nomenclatura unanime?
Questa sarà la prima volta nella mia vita in cui avrò uno spazio solo per me, e nel parlare con entusiasmo della prospettiva con diverse persone ho incontrato un paio di volte il commento “Come sei indipendente!”. Io in realtà non penso di essere particolarmente indipendente, e a dire il vero da quando vivo negli Stati Uniti mi sono resa conto sempre di più di quanto abbia sempre dipeso, in modi fluidi e mutevoli.
Per esempio, appena sono arrivata non riuscivo a parlare al telefono con la gente, per cui fra gli occasionali momenti di linea disturbata, o accenti poco familiari, o termini tecnici, spiegare all’idraulico cosa non funzionava e concordare un appuntamento era un’operazione umiliante e stancante. Per questo dipendevo da Corey che prenotava i ristoranti o chiamava i dottori per me.
L’insieme delle cose pratiche su cui ho chiesto aiuto a Corey, ai suoi genitori, a Miriam, o ad altri amici è vasto e si espande tuttora. Non ho nessuna difficoltà a navigare burocrazia, conversazioni con sconosciuti, problemi logistici, ma ancora chiedo di continuo di spiegarmi un proverbio, o una battuta su SNL. Ecco quindi che dipendo da chi mi circonda per traduzioni estemporanee di cose che non capisco.
Se c’è un gruppo di persone in un salotto e ci si parla sopra e sono un po’ stanca e mi affatica tradurre, mi accorgo di distrarmi e perdere il filo e dipendo da qualcuno che se ne accorga e mi chieda che ne penso a proposito di quello che si sta dicendo.
E se finora sembra che abbia elencato solo “debolezze”, in cui la dipendenza è sinonimo di “chiedere aiuto”, vorrei specificare che penso di dipendere da quanto mi circonda per accedere a tutto quello di cui mi nutro. Per esempio, se leggo un articolo che mi interessa dipendo dalla persona a cui lo mando per espandere quello che penso. Un meme fa ridere anche se non lo mandi a nessuno? Il nostro salotto sarebbe così accogliente se al muro ci fossero solo le mie stampe?
Per non parlare di quanto dipendo da chi si siede e mi chiede “E poi cos’è successo?” o “E a quel punto come ti sei sentita?”: non potrei crogiolarmi nel raccontare storie senza chi mi ascolta, né potrei provare a capirmi se non ci fosse l’alterità di qualcuno a cui interesso a farmi le domande giuste.
E ancora, il mio amore per le persone che fanno parte della mia rete qui a New York dipende profondamente dal loro benessere, dal loro desiderio di condividere con me cosa succede loro e addirittura chiedermi consigli per poter sfoggiare la mia infinita saggezza. Oggi Tommaso ha corso la mezza maratona e quando ci siamo incontrati nei pressi della finish line e ho percepito la sua carica e la sua soddisfazione ho pensato di dipendere da quel momento.
Io non vivo la mia decisione di andare a vivere da sola come una ricerca di indipendenza, programmo di restare dipendente come sono ora dalla capacità e dalla disponibilità di chi mi circonda ad aiutarmi a navigare il mondo, a farmi ridere, a farmi domande che non mi ero fatta da sola e a condividere con me l’affascinante materia che gli passa per la testa. Piuttosto, per capire cosa significasse per me questa scelta, mi è stato utile incappare nel concetto di backstage self, elaborato dalla prospettiva drammaturgica, una teoria sociologica che utilizza metafore tratte dal mondo del teatro per descrivere i rapporti umani. Semplificando un po’, il “sé dietro le quinte” è la versione rilassata e lontana dallo sguardo collettivo, uno spazio di sollievo in cui si può interrompere lo sforzo di “presentazione”. Un aspetto importante è che dietro le quinte non si sta necessariamente da soli, anzi, spesso l’immagine è quella di un gruppo di attori, una troupe che ha messo su la performance e che collettivamente se ne ritira. Per esempio, un cameriere in cucina con i colleghi vive un’esperienza di backstage self rispetto al momento in cui si trova in sala. Mi pare di intuire quindi che un “dietro le quinte” possa rivelarsi un palcoscenico, relativamente a un backstage ancora “più back” (il cameriere di prima, quando stacca dal turno, si ritira ad un ulteriore gradino di privato). La casa è, per definizione, il posto “più dietro le quinte di tutti”, e nella mia esperienza finora, in varie configurazioni più o meno fortunate, sono stata dietro le quinte sempre con altre persone. Per cui mi interessa fare esperienza di un backstage deserto, dove non c’è effettivamente nessuna “presentazione di me”. Sono curiosa nel senso che provo un genuino desiderio di scoprire come è, anche se penso sia probabile che in futuro desidererò nuovamente qualche forma di convivenza. Dopo quasi cinque anni anni di condivisione del backstage così preziosa, ricca e arricchente, non escludo che la ricercherò (in forma romantica o platonica) in un altro momento della mia vita. Per cui ecco, non mi sembra un segno di indipendenza perché penso che, semmai, vivendo da sola avrò ancora più desiderio e bisogno di tutte quelle cose che ho elencato sopra.
Questa opportunità si inserisce nel contesto di alcune settimane in cui sperimentare mi sembra una prospettiva allettante. In una vecchia puntata del suo podcast, Ezra Klein intervista Alison Gopnik, una psicologa che all’epoca aveva appena pubblicato un libro dal titolo The Gardener and the Carpenter. Una delle idee fondamentali che viene discussa nel podcast è appunto quella di due approcci antitetici alla genitorialità: il falegname plasma un oggetto in modo che rispecchi la sua visione di un progetto, il giardiniere fa spazio alla natura affinché emerga “per come è”. Gopnik torna spesso sul trade-off generato da questi due modelli, e su come si presenta nella vita adulta: esplorare è controproducente quando c’è un obiettivo di breve termine da raggiungere, una operazione di massimizzazione da effettuare; ma sfruttare quello che si conosce e andare solo nella direzione che si è scelta in partenza limita le possibilità di espansione. Non c’è niente di particolarmente rivoluzionario in questo concetto, ma mi ha colpito sentirlo esprimere così chiaramente perché riassume un cambiamento di paradigma che mi pare di aver vissuto in me. Nei primi mesi di questo anno accademico cercavo di capire come far rientrare le mie pulsioni, i miei desideri, le mie curiosità, all’interno dello spazio (ampio ma comunque rigido) che avevo deciso di darmi. Ho faticato molto a conciliare la mia stanchezza con la convinzione che dovevo lavorare tanto, il mio desiderio di restare a New York dopo la fine del dottorato con il mantra ubiquo del “fai domanda per qualsiasi lavoro”, la mia curiosità per percorsi di carriera che non mi erano mai stati prospettati con i nomi delle due o tre opzioni che rimbombano nei corridoi del mio dipartimento. Ultimamente mi sembra invece di sentirmi sempre più in sintonia con un nucleo di fiducia che mi fa sentire sufficientemente sicura da immaginarmi ad esplorare, a fare passi in direzioni che non mi aspetto, e non necessariamente a sfruttare tutte le informazioni che ho accumulato finora su chi sono o che lavoro voglio fare. Come sempre, non sono informazioni esaustive.
A pranzo la scorsa settimana uno dei miei advisor, un professore piuttosto giovane che nell’ultimo anno è stato per una grande fonte di ispirazione umana oltre che intellettuale, ha detto che la cosa più importante è finire il dottorato provando orgoglio per il proprio lavoro, che bisogna chiudere il percorso avendo fra le mani una cosa fatta bene. Mi ha colpito moltissimo perché erano parole che Federica mi aveva detto qualche settimana prima, e forse l’unico approccio che in questi anni ho sentito mio in maniera costante, anche se silenziosa, mentre tante altre motivazioni e spinte sono andata e venute più rumorosamente e disordinatamente. Anche se non credo che la mia tesi lascerà a bocca aperta nessuno (e ho comunque tanta paura che il modello che ho iniziato a scrivere non finirà mai), penso che ho già fra le mani una cosa di cui sono orgogliosa e che perché finisca come tale non posso far altro che curiosare un altro po’.
Vivere da sola mantenendomi fiera e centrata su quanto sono dipendente, e finire la mia tesi vivendola come una cosa che deve soddisfare il mio rigore intellettuale e il mio interesse accademico, sono due avventure in cui non dovrò semplicemente usare quello che ho imparato cercando di essere produttiva ed efficace, ma in cui dovrò provare cose nuove e rischiare un po’, ficcare il naso dove non l’ho ancora mai messo. Sarà un anno bellissimo.
Un abbraccio,
Ludovica
Per sottrarsi a questi inviti basta cliccare qui. Le vecchie missive spedite dal 2019 al 2023 sono custodite qui. Potete inoltrare questa mail a qualcuno che vi piace.