Ciao amiche
Questa qui sopra è esposta da Fotografiska, all’interno di una mostra che si chiama Human / Nature che ho visitato con Stefano. L’ha realizzata Lori Nix, in collaborazione con Kathleen Gerber. Il soggetto della foto è un diorama realizzato a mano, un paesaggio immaginato e costruito in miniatura prima di essere fotografato. Nonostante (presumo) lo scenario sia apocalittico, in realtà mi ha messo pace, mi ha ricordato le atmosfere di A Psalm for the Wild-Built (di cui avevo parlato qui). Non c’entra niente con quello che sto per dire, ma mi sembra importante partire con una dose di creatività.
La scorsa settimana ho ascoltato Pazienza un altro podcast, a cura di Guido Piccoli: solo 5 puntate, che ripercorrono la vita e il genio di Andrea Pazienza. Conoscevo già questo fumettista, sia perché piace a mio padre, sia perché avevo ascoltato Frigo!! a cura di Nicolò Porcelluzzi e Ivan Carozzi, un podcast dedicato alla rivista Frigidaire, che gli dedica una puntata che però si chiama “Le morti di Stefano Tamburini e Andrea Pazienza. Il lavoro di Guido Piccoli, pur dedicando uno spazio piuttosto ampio al rapporto di Pazienza con l’eroina e alla sua morte, ce lo racconta invece fin da bambino. C’è per esempio un ricordo della sorella che racconta di come il padre, che insegnava educazione artistica alle scuole medie che Pazienza frequentava, gli metteva in continuazione voti bassi (forse per non dare adito a dicerie di favoritismi). In tutte le interviste (tra cui tre donne che lo hanno amato, ricambiate, in tre momenti molto diversi della sua vita) si parla del suo talento nel disegnare come di una sorta di forza soprannaturale: non faceva bozzetti a matita, non staccava la penna dal foglio, era velocissimo e al contempo incredibilmente attento ai dettagli. Una metafora che viene usata a un certo punto è quella di un vulcano che erutta, i riferimenti alla parola “genio” abbondano sulla bocca di amici, fidanzate, e di un suo insegnante di disegno al liceo artistico che ha frequentato a Pescara.
Ho scoperto di un murale che ha realizzato alla Mostra d’Oltremare nel 1987, a quanto pare per farsi perdonare di aver sbagliato albergo finendo per soggiornare in uno molto più costoso del previsto. Ho ascoltato una sua amica di infanzia leggere una lettera che lui le ha spedito da Bologna raccontandole il suo primo anno al DAMS:
Come va? A cazzo di cane, ecco come va. Sono uno studentaccio, volgare, scurrile, triviale, meridionale e capardo. E porca Eva, che vita di merda. Qui con una doccia al giorno riesco si e no a grattarmi via un’oncia di smog e per pulirmi dentro non basterebbe una fabbrica di detersivi. Sono stato a cercare di mettere un po’ di ordine nel collettivo di facoltà e mi hanno preso per reazionario, solo perché il fare sciopero per aiutare i post-telegrafisti di Modena non credevo dovesse servire a noi del DAMS. Manifesto, Lotta Continua, marxisti, leninisti, maoisti, radicali, comunisti, qui nella rossa Bologna si scannano fra loro, invece che unirsi a combattere uniti i parlamentini. Sono stato a sentire Venditti al Perigeo e al Palasport e mi hanno accusato di scarsa intellettualità.
Il tono ironico e intimo di alcuni ricordi condivisi dalle persone intervistate sembrano mettere in ombra la portata artistica dell’eredità di Pazienza, a favore di un elogio umano della sua personalità, istrionica, sopra le righe, immensamente seducente.
C’è un giocatore serbo in NBA, Nikola Jokić, che mi dicono essere incredibilmente talentuoso, che è noto per un atteggiamento riottoso alla fama, una sorta di distacco rispetto al suo genio sportivo. Per esempio, qui gli chiedono se è contento di aver vinto il titolo e risponde di sì, perché the job is done e può andarsene a casa (“tutti odiano il loro lavoro no?”). O ancora, qui scopre di dover partecipare a una parata con il resto della squadra per festeggiare una vittoria, e gli si dipinge sul viso una iconica delusione per il dover rimandare il rientro a casa. Come Il suonatore Jones, a cui tocca suonare tutta la vita una volta che la gente lo sa (e la gente lo sa) che sa suonare. Mi piace moltissimo che il verso successivo della canzone dica “e ti piace lasciarti ascoltare”, perché mi sembra renda giustizia alla coesistenza di due verità. Il testo della canzone di De André è adattato (come tutti gli altri testi di quell’album) da una poesia di Edgar Lee Masters, nella sua Antologia di Spoon River, in cui questo verso così esplicito manca, ma che rappresenta lo stesso sentimento complesso, fra l’orgoglio di avere un talento, il piacere di usarlo per dare gioia agli altri, il compiacimento che ne consegue, e il desiderio di scrollarselo di dosso.
The earth keeps some vibration going
There in your heart, and that is you.
And if the people find you can fiddle,
Why, fiddle you must, for all your life.
What do you see, a harvest of clover?
Or a meadow to walk through to the river?
The wind’s in the corn; you rub your hands
For beeves hereafter ready for market;
Or else you hear the rustle of skirts
Like the girls when dancing at Little Grove.
To Cooney Potter a pillar of dust
Or whirling leaves meant ruinous drouth;
They looked to me like Red-Head Sammy
Stepping it off, to “Toor-a-Loor.”
How could I till my forty acres
Not to speak of getting more,
With a medley of horns, bassoons and piccolos
Stirred in my brain by crows and robins
And the creak of a wind-mill—only these?
And I never started to plow in my life
That some one did not stop in the road
And take me away to a dance or picnic.
I ended up with forty acres;
I ended up with a broken fiddle—
And a broken laugh, and a thousand memories,
And not a single regret.
Fiddler Jones, come il suonatore di De André, sente la terra vibrare di suoni e chiude il racconto della sua storia dicendo di non avere rimpianti, ma in entrambi i testi, anche se più esplicitamente nella canzone, si sente forte il costo di offrire una merenda o un ballo a chiunque passi, al punto da non riuscire mai a cominciare ad arare.
Non so se in quei video virali di Nikola Jokić è sensato leggerci un rifiuto un po’ scocciato della dimensione pubblica della propria dote. Non so nemmeno se qualcosa del genere appartenesse a Pazienza: niente, nella ricostruzione fatta dal podcast, mi ha dato motivo di crederlo. Però ascoltando di questo ragazzino che tutti chiamano genio, di questa febbre creativa che lo faceva rimorchiare ma che al contempo lo isolava dai suoi compagni, mi sono chiesta cosa voglia dire saper fare qualcosa così bene che non puoi non farla, anche se malvolentieri, anche se ti costa. Comunque, anche senza avere un talento speciale, mi sa che tante di noi suonano perché lo sanno fare, per far ballare gli altri, e mi chiedo cosa avrebbe voluto dire arare, invece.
Vi mando un abbraccio,
Ludovica
Per sottrarsi a questi inviti basta cliccare qui. Le vecchie missive spedite dal 2019 al 2023 sono custodite qui. Potete inoltrare questa mail a qualcuno che vi piace.