Fra 10 giorni sarò in Italia, e non ci torno dal 25 Agosto 2023!! Da quando mi sono trasferita, è il tempo più lungo che ho passato senza rientrare. L’altro giorno ho scritto a Tommaso che invece di andare in ufficio stavo andando a lavorare un po’ in un “bar di quartiere”, e lui mi ha fatto notare che l’espressione evoca sedie di plastica verde scuro, tovagliette cerate a quadretti, e una slot machine in un angolo, niente di più distante dal coffee shop accogliente con gigantesche poltrone e cappuccini a 5 dollari verso cui mi stavo dirigendo. In realtà forse scrivendo questa frase contribuisco ad un immaginario fraudolento che caratterizza tanta narrazione dell’Italia: “autentica”, lenta, verace. In verità a Roma è pieno di posti identici a quelli in cui ho lavorato negli scorsi giorni (il caffè costa meno), così come a Crown Heights sono spuntate fuori sedie di plastica sul marciapiede appena ha fatto abbastanza caldo. Insomma, in entrambi i posti che credo di conoscere bene ci sono angoli dove l’esperienza dello spazio pubblico è curata ma poco interessante, o viceversa. Eppure non riesco a evitare di romanticizzare il tempo che passo a Roma, come se fossi un regista americano che fa un film ambientato in Italia. Presumo sia perché da lontano è facile mitizzare i dettagli, o è anche perché quando dico che sono italiana a qualcuno che non conosco qui, mi si chiede di evocare proprio questi dettagli.
Questo mese ho visto Ripley, la serie tv ispirata al celebre romanzo di Patricia Highsmith. Ne abbiamo poi discusso nel gruppo di lettura di ILDA, dove era stato appaiato al romanzo L’Avversario di Carrère. Più che parlare dei temi che le due opere hanno in comune, lo menziono qui perché mi ha fatto pensare a come era rappresentata l’Italia, dove si svolge la maggior parte della vicenda. La trama è ben nota anche grazie a un film del 1999 che mi dicono essere meraviglioso e che non ho visto (o se l’ho visto, non lo ricordo): un ricco ereditiere di New York, Dickie, vive ad Atrani, sulla costiera amalfitana, spendendo i soldi del suo fondo fiduciario e frequentando altri americani ricchi e un po’ insulsi come lui. Ha velleità da pittore e si rifiuta di tornare a casa, per cui il padre manda in Italia Tom, che crede essere un vecchio amico di Dickie, per convincerlo a piantarla, andarsene dall’Italia e, presumo, a lavorare nell’azienda del padre. Tom però è un truffatore un po’ sfigato che saliva alla vista dello yatch di Dickie e del suo Picasso in soggiorno e pertanto si ossessiona all’idea di partecipare di quel lusso, di farlo proprio. Forse ero l’unica persona sulla faccia della terra che non conosceva la trama di questa storia, ma comunque evito di dilungarmi se così non fosse perché sicuramente è un prodotto che funziona meglio con i colpi di scena di cui è intessuto. La ragione per cui volevo riflettere su questa serie, come è accennavo, è che è una storia di americani in Italia. Le riprese in bianco e nero indugiano su scorci splendidi e salite erte, ma nonostante l’impiegato dell’ufficio postale sonnacchioso o la portiera impicciona mi è comunque sembrato che l’Italia sembrasse, nella serie, un posto “vero”, non ad uso e consumo dei ricchi americani che lo abitano. Non so indicare con precisione quale aspetto dello sguardo del regista garantisca questo effetto, ma credo che il punto sia che l’esotismo che i protagonisti percepiscono, l’idea che il posto in cui si trovano è lì affinché loro ne assorbano la diversità rispetto a quello che conoscono, mi è sembrata già ridicolizzata dallo sguardo della serie. Certo, è tutto bellissimo: il Caravaggio, la trattoria, la villa veneziana, ma c’è qualcosa di inquietante e allo stesso tempo ridicolo nel modo in cui i protagonisti si rapportano con questa bellezza. Vogliono possederla e non capirla, e in questa vacuità mista a profonda solitudine (che caratterizza un po’ tutti e tre i protagonisti) c’è molta della tragedia della vicenda.
Invece sono rimasta tanto delusa da The Sicilian Inheritance, un podcast di Jo Piazza in cui l’autrice racconta il suo viaggio in Sicilia sulle tracce di un mistero che ha come protagonista la sua bis-bis-nonna1. Quando ho iniziato ad ascoltare il primo episodio ero intrigata: all’inizio del ‘900 un uomo siciliano parte, con i suoi figli maschi, verso l’America, e si lascia dietro moglie e figlie. Le ragazze lo raggiungono, mentre la donna morirà in circostanze misteriose prima di riuscire a partire da Caltabellotta. I Piazza, una famiglia italoamericana numerosissima, si tramandano un paio di versioni diverse della storia: in una, Lorenza era una ostetrica e curatrice e, quando un bambino affidato alle sue cuore muore, diventa oggetto di vendetta della famiglia in lutto; in un’altra, dopo aver venduto una vigna della famiglia, viene rapinata dei proventi e poi uccisa. Il padre di Jo, negli ultimi anni della sua vita, era diventato sempre più avvinto a questa storia, e deciso a chiarirne il mistero: dopo la sua morte la giornalista decide quindi di onorare la sua famiglia, suo padre, e le sue origini, restituendo la vicenda di Lorenza alla verità. La premessa, ne converrete, è succosa. Quando ho iniziato ad ascoltare ho trovato divertente il modo in cui la famiglia Piazza chiama la mafia, cioè Mano Nera. Un’espressione che non mi pare di aver mai sentito e che Jo Piazza stessa dichiara essere una “invenzione” italoamericana. Scopro in realtà su Wikipedia che il termine denota un circolo di criminali, e le loro attività di estorsione ai danni di altri italoamericani. Mi pare un peccato che il podcast glissi su questo dettaglio: la famiglia Piazza chiama la mafia siciliana con un termine che in italiano non si usa, ma non è un’espressione a caso, bensì il frutto di una confusione totale fra l’esperienza siciliana e quella italo-americana. Questa fusione fra l’esperienza della terra “ancestrale” e quella dei propri nonni, già molto americani, mi sembra una caratterizzazione importante dell’esperienza di discendere da immigrati, ma non esserlo più, e trovo che l’indagine di Piazza sia un’occasione sprecata di dirci qualcosa su questo specifico posizionamento identitario. Il momento in cui sono rimasta però completamente interdetta è stato quando il primo episodio si è interrotto per la pubblicità: Jo Piazza decanta le qualità di un olio importato, in edizione speciale per accompagnamento della sua inchiesta sulle tracce di nonna Lorenza (“You hear that? Do you hear that? That's the gentle lapping of the Mediterranean Sea on the fine golden sand. By the magic of podcasting, you can almost feel the heat of the sun, the cool of the water, and the smell of the orange blossoms. And with a few short clicks, you can taste it too, because we have actually imported the finest Sicilian olive oil.). Tutto il podcast, nella sua interezza, mi è sembrato stesse cercando di vendermi qualcosa: magari non l’olio, ma una immagine dell’Italia, e della Sicilia in particolare, impacchettata per essere facilmente digeribile. Il pasto luculliano, il caldo infernale, l’ufficio comunale sulla piazzetta incantevole con un impiegato un po’ ostile, l’olio importato, adulterio e mafia in un paesino idilliaco: mi è parso tutto più un prodotto che una narrazione, più vibes che storia. Mi mancano due puntate, quindi ancora non so che è successo a Lorenza. Chissà come le sarebbe parso parlare con la sua trisnipote americana, e chissà se le radici in comune avrebbero avuto o meno un peso tangibile in questa narrazione.
Ci sono due romanzi della tradizione italoamericana che vorrei leggere.
Il primo è un romando del 1939, Cristo fra i muratori (Christ in concrete), di Pietro di Donato, uno scrittore nato in New Jersey da genitori abruzzesi. Nel 1932 il padre di di Donato muore in cantiere, e questa tragedia segna il figlio che la racconta appunto nel romanzo. I protagonisti lavorano nei cantieri di Manhattan, costruendo grattacieli, coincidenza interessante perché l’altro giorno ho visto al cinema Skyscraper, un cortometraggio del 1959 diretto da Shirley Clarke che ha a sua volta al centro la costruzione di un grattacielo di New York, in particolare del Tishman Building, a 666 Fifth Avenue. Una cosa che mi aveva irritato del film (ed è un commento che ho ritrovato più volte su Letterboxd) è che alle immagini degli operai che lavorano, sospesi a decine di metri di altezza o con carichi pesantissimi, sono sovrapposte voci che leggono con tono quasi infantile frasi come “Oh, that’s me!” e narrano l’orgoglio di aver contribuito alla costruzione di un’opera così monumentale senza riportatci nulla delle brutalità del lavoro in cantiere. In effetti, il cortometraggio di Clarke credo abbia fatto da spot pubblicitario al nuovo grattacielo, il che spiega la patina di glamour che ricopre i rischi e le fatiche di chi ci ha lavorato. Mi aspetto invece un resoconto più crudo, nel romanzo di di Donato, che se ho capito bene unisce le istanze sociali che lo animano ad una sperimentazione linguistica, mischiando l’inglese ai dialetti regionali dei vari muratori.
Il secondo classico italoamericano che voglio leggere è Paper Fish (1980), di Tina De Rosa. Anche questo romanzo è in parte autobiografico e racconta la storia di tre generazioni di una famiglia nella Little Italy di Chicago. Mi pare di aver capito che il rapporto fra la protagonista e sua nonna sia un elemento centrale del romanzo, ma per il resto non ho trovato molto altro in rete.
Forse ci vuole solo più tempo, e mi sarà più facile navigare la nostalgia che provo per Roma, quanto la sento diversa dalla mia casa qui, e al contempo quanto mi irrita il modo in cui la mia città o l’Italia siano rappresentati nell’immaginario del posto in cui vivo. Fatico a contraddire chi mi dice “oh I love how everyone takes it easy over there” perché sì, anche a me manca prenderla un pochino più calma, e in Italia ci riesco meglio, ma al contempo so benissimo che dentro quella frase ci sono idee che non hanno nulla a che vedere con la realtà da cui provengo. Da un lato voglio idealizzare il mio paese, e so che in queste costruzioni c’è qualcosa di vero della nostalgia che provo, dall’altro mi infastidiscono le idealizzazioni in cui incappo quando dico a qualcuno che sono italiana, perché le loro mi sembrano false e costruite per vender loro qualcosa, magari anche qualcosa che non esiste.
Oh well, ci risentiamo dallo stesso fuso orario.
Un abbraccio,
Ludovica
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