Ho passato due giorni a Capri, a festeggiare l’imminente matrimonio di Valeria, e ho fatto qualche foto brutta del Vesuvio: non ero mai stata a Capri anche se sono andata a Napoli forse centinaia di volte, e ho pensato che vorrei passare più tempo nei dintorni dei posti da cui viene la mia famiglia. Oggi voglio scrivere di due evocazioni molto diverse di terre ancestrali in cui non si vive: una mi riguarda molto da vicino, e l’altra non potrebbe essere più lontana. Comincio dalla seconda.
Sul sito 4columns vengono pubblicate, a cadenza settimanale, quattro recensioni di altrettanti prodotti artistici (musica, arti visive, libri, e cinema). Mi piace moltissimo e quasi sempre, quando mi arriva la loro mail, leggo i quattro pezzi, magari solo velocemente, a meno che qualcosa non attira la mia attenzione: è così che ho scoperto l’album Night Reign, di Arooj Aftab (l’immagine qui sopra è la copertina). Invito: che musica state ascoltando?
Aftab è nata in Arabia Saudita da genitori pakistani, quando lei aveva dieci anni la sua famiglia è tornata in patria, a Lahore, dove ha vissuto fino al trasferimento negli Stati Uniti, a diciannove anni, alle volte di una prestigiosa scuola di musica.
La recensione su 4columns, così come questo testo sul sito dell’artista, sottolineano la natura notturna dell’album: “certe cose si possono ascoltare solo di notte”. Sia chiaro, io di musica non ci capisco niente, però mi colpisce come questa qualità sia in effetti trasparente: ascoltando vengono alla mente acque scure, riflessi perlacei, immaginari notturni dove si mischiano cullarsi il sonno, immalinconirsi, avere un po’ di timore. Mi colpisce anche la ricchezza dei riferimenti alla luna1, che scopro essere un simbolo complesso nella cultura urdu, capace di evocare sia il misticismo delle riflessioni notturne che un ben più terrestre amore appassionato (pare che l’espressione “tumhare waste main chaand tod laaunga” che significa “strapperò la luna per te” sia una comune dichiarazione d’amore). Non è un caso che gli articoli che parlano di questo disco, che è uscito questa settimana, citino la tradizione poetica urdu: molti dei testi dell’album sono in urdu, e in più di una occasione contengono riferimenti o citazioni da poetesse o artiste pakistane o indiane. In particolare, nel brano Na Gul, il riferimento è Mah Laqa Bai, poetessa2 di lingua urdu vissuta nel 18esimo secolo in quella che è oggi la ragione Maharashtra, parte dello stato indiano. Con un po’ di difficoltà ho trovato la traduzione dei due versi che vengono ripetuti durante la canzone.
Su Wikipedia ho trovato anche la traduzione di un’altra sua poesia
Hoping to blossom (one day) into a flower,
Every bud sits, holding its soul in its fist.
Between the fear of the fowler and (approaching) autumn,
The bulbul’s life hangs by a thread.
Thy sly glance is more murderous than arrow or sword;
It has shed the blood of many lover.
How can I like a candle to thy (glowing) cheek?
The candle is blind with the fat in its eyes.
How can Chanda be dry-lipped. O Saqi of the heavenly wine!
She has drained the cup of thy love.
La forma è quella del ghazal, in cui il giardino e il vino (o la taverna) sono elementi ricorrenti: la parola bulbul indica un uccellino e ritorna continuamente nella poesia urdu, a rappresentare il poeta che, come un passero appunto, canta il suo amore ai fiori in ascolto. In questi versi però, il bulbul non canta, spaventato dalla prospettiva dell’arrivo di un cacciatore o dell’autunno. Nemmeno il bocciolo ascolta: è concentrato a sperare di fiorire.
Le atmosfere evocate dai brani di Night Reign sono lunari, per me, non solo perché letteralmente oscure (i testi in urdu sono impenetrabili naturalmente), ma perché, come accennavo, è la sera che la nostalgia si fa più viva, o che rimuginare è più facile.
Infatti è di sera che ho letto Il fuoco che ti porti dentro: ascoltavo questa puntata di Comodino, e immediatamente dopo averlo sentito nominare da Dario Ferrari, ospite del podcast, ho preso l’ebook e ho iniziato a leggerlo (molto di rado mi capita di leggere un libro subito dopo averne scoperto l’esistenza, di solito siedono in una astratta “coda” molto a lungo). Si tratta di un memoir in cui Antonio Franchini racconta di sua madre, Angela: non succede quasi niente perché la vita di questa donna non è particolarmente avventurosa, eppure il testo è magnetico. Questo è un tratto che ha in comune con il disco di Aftab, ma per il resto le atmosfere di questo libro sono opposte a quelle del disco: spiattellano, e non evocano, sono sanguigne e furibonde, c’è il mare e non la luna, si strilla invece di sospirare. Eppure, li metto insieme perché in entrambe le opere si sente una grandissima distanza, fra il posto in cui si è ora e il posto da cui si viene. Nel caso dell’album questa distanza sembra caratterizzata soprattutto da malinconia, nel caso di Franchini c’è anche un grosso sospiro di sollievo.
Anche Antonio Franchini rispolvera la sua lingua natia, il napoletano in questo caso, e racconta di sua madre, una donna meschina, gretta, volgare e violenta, una incarnazione del familismo amorale: non ha amiche, non ha interessi (a parte il cibo), non dorme la notte perché fa i conti del mese, e l’unica cosa di cui le importa è il sangue, la sua famiglia, senza che però questo sedicente amore diventi ascolto, o anche solo rispetto, di chi ha accanto.
Franchini non sopporta sua madre, eppure ne fa un ritratto che nel suo essere spietato la dipinge come una figura larger than life: tutta la sua identità, che non potrebbe essere più distante da quella della madre, è in fondo in relazione ad essa. C’è un passaggio molto bello in cui l’autore riconosce in sé proprio uno di quei tratti che non sopporta nella madre:
Io lo so che cos’è. Conosco la rabbia che nasce dal senso di inferiorità, dall’inadeguatezza.
Qualche volta sono stato preso da quella stessa frenesia, ho provato il desiderio di sfregiare con le parole coloro ai quali non sapevo ribattere, ho avuto voglia di insultare a freddo per coprire una mancanza di conoscenza e di argomenti, per nascondere la mia debolezza.
Io lo so che è da qui che nasce il male di Angela e forse del mondo.
Come so che degli altri miei mali, quelli che non so, quelli che mordono senza che io ne sia conscio, saranno consapevoli i miei figli quando, provenienti da me, se li scopriranno essi stessi addosso.
Franchini non evita di infilarsi fino ai gomiti in sentimenti oscuri: la vergogna, l’invidia, la colpa, quei lati dell’animo umano da cui ciascuno rifugge come può, e quel “come può”, per Angela, in assenza non dico di psicoanalisi, ma anche solo di un livello minimo di autocoscienza, è “decisamente molto male”. Forse l’aspetto più straziante della storia raccontata in questo libro è il rapporto di Angela con la più timida delle sue figlie femmine: il carattere di quest’ultima, che a differenza della sorella e del fratello non sfugge, scostante, alle grinfie materne, la rende una sorta di fogliolina alla mercé dell’uragano che è la madre (e chissà cosa pensa, la protagonista di questi racconti, del ritratto che il fratello fa di lei).
Per tanti motivi ho trovato la lettura di questo libro profondamente intima, galvanizzante, forse perché la lingua e alcuni modi mi sono appunto familiari, o perché mi interessa il visibile sforzo di un uomo adulto (bianco, eterosessuale, benestante) di processare le contraddizioni del suo vissuto cercando con candore di capirsi meglio. Come dice la mia amica Eugenia, nelle famiglie, luoghi per definizione complessi, l’unico modo per sperare di non riprodurre e trasmettere un trauma (ed è notevole, nel romanzo, quello che si riesce ad intuire dei rapporti fra Angela e sua madre) è nominarlo: “non viene fuori niente di buono dai tentativi di riparazione che presuppongono la resa incondizionata davanti a piccole e grandi ingiustizie”.
Ed è per questo che non sono d’accordo con commenti come, ad esempio, questa recensione su Goodreads, che, accostando il testo di Franchini ad altri, fra cui il bellissimo Niente di Vero di Veronica Raimo, lamenta la tendenza “priva di avventura” di questi “diari di ricordi a scopo terapeutico”: per me l’operazione intellettuale ed artistica di prendere la propria famiglia e metterne alcune nevrosi sotto il microscopio ha una portata di intrattenimento che va al di là del riconoscimento. Per esempio, nel libro di Raimo (che condivide con quello di Franchini la struttura episodica, il tono spesso ironico, una profonda amarezza e un sottostante arco di autoanalisi) non ho trovato moti e ossessioni familiari per me, ma ho trovato un grande coraggio nel nominare quelle che Eugenia chiama “le piccole e grandi ingiustizie” e nell’usarle per costruire un universo narrativo coerente e divertente. Entrambi i libri sono letture profondamente intrattenenti e al contempo hanno un portato forte che, narrativizzando un vissuto, lo rendono argomento di riflessione e discussione. Non credo perciò che lo scopo di questi testi sia terapeutico, credo che in entrambi i casi la scrittura segua ad un percorso (per definizione privato) di individuazione delle sfaldature nella maglia del tessuto domestico, e ne raccolga le fila proprio affinché quel percorso muti in discorso, che invece è per definizione collettivo.
Un abbraccio,
Ludovica
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Foto brutte del Vesuvio, foto brutte della luna: potato, potahto
Mah Laqa Bai era anche una cortigiana, e padroneggiava la lancia per cui spesso, vestita da uomo, accompagnava il suo sovrano in battaglia.