Ciao amici e amiche,
questa è Jūmantsubo Plain at Fukagawa Susaki, l’opera che mi è piaciuta di più della mostra, ospitata dal Brooklyn Museum, dedicata a Hiroshige e alle sue Cento vedute famose di Edo. La foto che ho fatto è brutta (ed ha un riflesso) ma spero renda l’idea della maestosità del rapace ritratto. Due settimane fa, durante una passeggiata in “montagna” vicino Cold Spring, ho visto un grande uccello (che ovviamente non saprei identificare) ed è stato un bellissimo momento perché la sua alterigia e imponenza mi hanno ispirata a raccogliere la mia, di grazia, prima dell’ultimo tratto della salita. Evviva i grandi uccelli!
Oggi volevo scrivervi solo per segnalarvi che Ghinea, forse la prima newsletter a cui io mi sia iscritta, che leggo ormai da molti anni e che ha occasionalmente (e generosamente) ospitato dei miei contributi in passato, pubblicherà la prossima settimana un’edizione speciale. Questo numero raccoglie diversi consigli di lettura (fra cui uno curato da me), e sarà inviato a chi vorrà fare una donazione a favore dei civili palestinesi. Dopo aver contribuito a una organizzazione o un ente basterà inoltrare la ricevuta per essere inclusi nella mailing list, e per ricevere poi il dispaccio in questione. Sono molto contenta di essere stata coinvolta in questo bel progetto (e di aver scritto di un libro che mi è piaciuto molto), quindi ci tenevo a diffonderlo un po’. Per l’occasione, io ho donato a Medici Senza Frontiere, e al link qui sotto trovate una lista (non vincolante) ad altre realtà. L’invito questa volta quindi si spiega da sé :)
Già che sono qui, vi racconto anche qualcos’altro. Qualche tempo fa ho visto Janet Planet al cinema: racconta un’estate nella vita di Lacy, una bambina che vive con sua madre, Janet, in una casa un po’ sperduta in un bosco. Le due hanno un rapporto molto intimo, solo parzialmente scosso dal transito di varie persone che entrano ed escono dalla vita di Janet (amanti, amiche). La regista, Annie Baker, è una sceneggiatrice teatrale, al suo debutto cinematografico: segnalo questa sua intervista in cui ripercorre il suo rapporto con la scrittura, e questo articolo del New York Times che contiene alcuni dei suoi riferimenti e delle sue fonti di ispirazione. Non so perché ma il trailer di Janet Planet mi aveva ricordato The Florida Project, un film stupendo di Sean Baker che ho visto al Beltrade (il mio cinema preferito quando vivevo a Milano) nella lontana estate del 2018 (credo). Ho avuto l’impressione che, oltre ad avere entrambi il punto di vista di una bambina, in entrambi i casi figlia di madre single, i due film condividessero un certo spirito realistico e una patina avventurosa. Invece avevo, in buona parte, preso una cantonata, e mi sa che oltre al cognome delle due registe1, e a un po’ della palette di colori, non condividono granché (inciso: qui una riflessione sull’uso del colore nel film di Sean Baker).
Il ritmo lento di Janet Planet, l’atmosfera un po’ onirica alcuni dialoghi un po’ spiazzanti, mi avevano lasciata, sul momento, un po’ delusa. Quando sono tornata a casa ho aperto Letterboxd e sono incappata in questa recensione del film: è un testo molto personale, in cui chi l’ha scritto condivide molto del suo rapporto con la sua famiglia e della sua infanzia, ed ha completamente illuminato il film per me. In particolare, la recensione sottolinea come questo sia un film sulla solitudine delle bambine, sulla realizzazione che gli altri componenti della famiglia sono separati da noi e come tali non possono vederci del tutto. Questa chiave di lettura, che mi ero persa durante la visione, mi ha fatto non solo apprezzare di più il film, ma anche ricordato l’importanza della critica.
Ho poi scoperto che l’utente di Letterboxd in questione è una giornalista, e scrive di televisione e cinema, ma non credo che il punto che voglio fare dipenda strettamente dalla professionalizzazione della critica. Mi piace particolarmente leggere recensioni di libri o film (anche se si tratta di prodotti che non ho ancora consumato, o che non consumerò mai) perché nel leggere come qualcun’altra processa l’esperienza estetica che ha avuto mi sembra sempre di imparare qualcosa sul medium in questione, e sull’opera in oggetto. Nel caso di Janet Planet, addirittura, ho imparato qualcosa sulla mia stessa esperienza dell’oggetto che veniva criticato, il che non è comune ma è il segno di una critica davvero riuscita, credo. Mi piace talmente tanto che una volta trovata una penna, o una pubblicazione, che mi sembra aprirmi orizzonti nuovi, leggo anche articoli su opere o film che non mi interessano. Ci sono alcune critiche che sono anche accademiche (Merve Emre, o Amia Srinivasan, che con un suo articolo mi ha fatto diventare vegetariana) per cui leggerle significa spesso entrare in un mondo di riferimenti eruditi, altre che sono a loro volta scrittrici di fiction (per esempio Namwali Serpell, o Brandon Taylor che leggo sempre anche se non sono sempre d’accordo, oppure Garth Greenwell che con questo articolo sull’abiezione morale in letteratura mi diede molto da pensare) e altre ancora il cui lavoro occasionalmente si sovrappone a quello giornalistico (Parul Sehgal che qualche tempo fa ha scritto un pezzo secondo me brillante sulla “trauma plot”, o Christian Lorentzen, o Becca Rothefield).
Recentemente ho ascoltato questa intervista ad Hannah Goldfield, che fa la critica gastronomica e che alla fine dell’episodio commenta alcuni biscotti che le fanno assaggiare sul momento, durante la registrazione: tutto il podcast è basato sull’idea di scoprire come diverse critiche (invitate di volta in volta) approcciano l’oggetto di cui devono parlare, e come formano un giudizio estetico, ma questa puntata in particolare mi ha colpita perché ultimamente, nelle mie esplorazioni culinarie con Tommaso, ho sperimento un fenomeno simile a quello che descrivevo sopra per Janet Planet. Leggere un articolo ben scritto che recensisce un ristorante o dei piatti, prima o dopo averli provati e commentati insieme, è un piacere che a volte mi sembra completi quello della cena in sé. Questo è vero sia perché fornisce informazioni (quando ha aperto il ristorante, come innova su una ricetta tradizionale, qualche aneddoto sulla cucina in questione) sia perché condivide un’esperienza tramite un filtro soggettivo, semplicemente proponendo aggettivi o interpretazioni e nel farlo arricchisce l’esperienza di mangiare.
Anahid Nersessian in questa intervista parla di un esercizio che ha fatto da studentessa, e che ripropone ora da insegnante: descrivere un oggetto senza utilizzare nessuna parola afferente all’area lessicale solitamente usata per descrivere quella forma d’arte. Dopo aver raccontato il terrore provato di fronte alla propria presunta incompetenza, la prima volta che in un workshop le è stato chiesto di criticare un brano di Coltrane senza parlare mai di suono, spiega che in questa attività apparentemente paradossale si cela la potenzialità di capire qualcosa in più della musica in questione. L’intervistatore nomina la massima “Scrivere di musica è come danzare di architettura”, e insieme la interpretano, invece che come una tragedia, una sconfitta sull’impossibilità di questa attività, come un invito a immaginare modi nuovi i commentare, magari col proprio corpo, sulle esperienze estetiche che si vivono.
Mi rendo conto di non saper spiegare davvero cos’è che trovo così interessante su questo tema, e indubbiamente il non avere nessuna formazione in merito non aiuta, ma ho pensato che scrivendone qui potevo non solo invitarvi a rispondere ma anche invitare me stessa a continuare a pensarci, visto che mi affascina così tanto.
Un abbraccio,
Ludovica
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Femminile sovraesteso oggi, e sperabilmente più spesso!