Ciao amiche,
in questi giorni, più che in qualsiasi altro momento degli ultimi 5 anni, sento tanto il desiderio di stare a casa dei miei genitori, la distanza fra casa mia e la loro mi sembra siderale, e fatico a raccapezzarmi con la nozione di “emigrata”.
Poiché un mio amico è stato a Miami la settimana scorsa, mi ha chiesto consiglio su dove andare. Ho elencato un po’ di cose che ho fatto durante le vacanze di Natale con i miei genitori. Con mia immensa gioia lui ha preso alla lettera le mie raccomandazioni (secondo me la mia vocazione è la curatela, o la dittatura). Questa interazione comunque mi ha ricordato che volevo spendere due parole sul mio viaggio e su un paio di letture a tema che ho fatto appena tornata dalla Florida.
Abbiamo visitato, in dieci giorni circa, la Florida meridionale: Miami, Sarasota, le Everglades e le Keys. Ho scattato 1500 fotografie (non è un’iperbole). Ho visto tantissime cose diverse, e a loro volta nessuna di queste cose somiglia a quello che avevo già visto nei miei altri viaggi (due) e viaggetti (due) negli Stati Uniti.
South Beach a Miami ha un lungomare sconfinato con alberghi Art Deco e una sequela di locali un po’ tamarri. Lì di fronte, nella Biscayne Bay, ci sono le isole private delle star di Hollywood, e poi downtown. L’area urbana di Miami è gigantesca: si estende a nord fino a West Palm Beach a sud fino a Florida City, prima che comincino le Keys. Le autostrade si incrociano a livelli diversi, ed è impossibile capire dove un paese si trasforma in un altro. C’è un sacco di festa, musica, tanta gioventù e un brulichio continuo (anche se in macchina, perché a differenza di New York mi pare che non si cammini molto). In tutta questa esuberante vita, Miami dà l’impressione di essere allegra per forza, di censurare anime più meditabonde che pure mi pare abbia. Ad un soggiorno breve come il nostro mi pare nasconda tantissime altre realtà. A cena su una terrazza a Little Havana, un posto molto tranquillo che stava per chiudere, mi è sembrato un vero posto di frontiera, nel senso di luogo aperto, di passaggio, senza una forma finale.
Notoriamente, Miami ha accolto l’esodo cubano ed è una città a maggioranza ispanica. Questo si vede nel cibo, nei rumori che si sentono in giro, nelle facce per strada. Non ci sono dei quartieri latini, perché lo sono tutti. Ci sono invece, quartieri neri: le culture mescolate che sembrano emergere dalla storia della città nascondono altre esclusioni. A tal proposito, Johanne Rahaman ha un progetto che si chiama Black Florida volto a creare un archivio delle vite afroamericane nello Stato.
Il fotogramma qui sopra viene dal film Moonlight: quando l’ho visto non avevo prestato particolare attenzione al fatto che fosse ambientato, in buona parte, in Florida, anche se gli azzurri e i rosa pastello di certe inquadrature, a ripensarci, lo dichiarano forte e chiaro. Il film è stato accostato al lavoro di Rahaman in questo articolo del New Yorker. L’esperienza afroamericana in Florida, mi pare, è diversissima da quella qui a New York in modi cui queste due opere (il film e l’archivio fotografico) fanno appena avvicinare.
Per aggiungere un altro pezzetto alla complessità di questa città, di Miami come frontiera si parla qui: è un breve profilo dell’artista Rose Marie Cromwell che ha dedicato a Miami un progetto fotografico, il cui titolo è “A more fluid athmosphere1” e da cui ho preso l’immagine qui sotto. Nella descrizione del progetto, la fotografa sottolinea il ruolo dello scintillio nel costruire il suo immaginario della città: la luce è tanta e un po’ “smarmella”, creando riverberi strani. Non ho visto solo i colori al neon di Miami Vice o Scarface, ma anche corpi abbronzati e liscissimi, galli per strada, graffiti.
E poi, a Miami si soffoca. Non a dicembre, quando c’ero io, ma la sua natura di città in pericolo si percepiva lo stesso, giacché la sua storia urbana è segnata dal caldo torrido e dagli uragani, come quello del 1926. In questo articolo del New Yorker, c’è un estratto di FloodZone, un progetto di Anastasia Samoylova: le fotografie, come quella qui sotto, rappresentano una città deserta, spesso allagata, sull’orlo di sbriciolarsi per la muffa. Eppure, come nelle foto di Cromwell, Miami scintilla anche in queste, e nelle parole di Samoylova torna l’inquietudine della allegria forzata di cui parlavo prima, il divertimento che sembra vagamente fuori posto.
Perhaps that is what paradise always was: the fantasy of a place beyond events, beyond trouble. But escape is its own trap. While our desire for paradise is an attempt to flee some inner turmoil, the lands we call paradise are so often in turmoil themselves. What keeps the dream going is the sumptuous allure of it all. The light and the heat. The shimmer of every shade of wet green. Those pastel pinks that mold and mottle, from forced happiness to sweet melancholy. The tropical palette is here in these photographs, but not as expected. The languorous playground of expensive leisure is here, too, but it is nightmarish.
Questa è un storia di cambiamento climatico, ma forse, come scrive Samoylova, il confine fra acqua e terra non è mai davvero esistito. E l’assenza di questo confine è ancora più evidente nelle Everglades, dove non c’è più niente dello scintillio dei neon, dei pavimenti appiccicaticci per i cocktail zuccherosi, non c’è nemmeno la vita culturale di una città piena di arte: ci sta solo la palude. Ci sono un sacco di chilometri di una natura bellissima (menzione d’onore per le spatole rosate che nella classificazione di Linneo si chiamano Platalea ajaja) che però sembra sempre in agguato. Abbiamo visto placidi alligatori fermi immobili in delle pozze lungo l’unica strada che attraversa il Parco Nazionale. Quello che mi inquieta di più però è tutto quello che non abbiamo visto, sotto il pelo dell’acqua stagnante.
Queste atmosfere, asfissianti, spaventose, misteriose, ma anche così fertili, in perpetuo brulichio, estremamente vive, sono ovunque in Florida, la raccolta di racconti di Lauren Groff che ho letto poco dopo essere tornata. Avevo letto il suo romanzo Fato e furia che mi aveva mortalmente irritata, invece questa raccolta mi è piaciuta da morire. Al gruppo di lettura de I Libri degli Altri (parlando di un’altra raccolta di racconti) avevo detto che a me di solito i racconti non piacciono, perché mi lasciano sempre un po’ a bocca asciutta: mi è stato spiegato che è una percezione comune, e che tuttavia un racconto ben congegnato riesce a soddisfare anche se mosso da pura atmosfera, tutte vibes. In effetti è stato così: le donne protagoniste di questi racconti stanno sull’orlo di rivelazioni epocali, o di gesti estremi, o di cataclismi naturali, e non assistere all’intero arco della vicenda non mi ha impedito di sentirla come reale.
Ci sono, nel libro, le tensioni razziali (“Se dovevo vivere al Sud, tra le arachidi bollite e il muschio che penzola dappertutto come peli di ascella, almeno non mi sarei barricata con la mia pelle bianca in una comunità protetta. Ma non è … pericoloso?”), il caldo (“… e soltanto per gradi comprendo che il rumore arriva dal primo condizionatore acceso dell’anno. Presto lo saranno tutti, accovacciati come troll sotto le finestre, il loro stonato ronzio di gruppo coprirà i canti degli uccelli notturni e delle rane, il tempo farà un balzo in avanzi e la notte calerà con riluttanza sempre maggiore…”), i conflitti istituzionali (“Inesorabile, l’università si ingrandì. Sostenuta da una fornitura costante di aria condizionata, si gonfiò e si espanse inghiottendo la terra che la separava dalla palude”), la natura piccola e brulicante (“Una cosa che mi piaceva era come le zanzariere di notte pulsassero sotto i teneri ventri delle lucertole”) e quella grande e inesorabile (“Poi lo strato superiore del lago sembrò sollevarsi come un unico grande lenzuolo per scaraventarsi addosso alla casa”). In un racconto in particolare un ruolo importante è svolto da William Bartram, botanista ed esploratore che è ritenuto il primo ad essersi avventurato nella densa natura tropicale della Florida: forse anche a lui la regione sembrava “un Eden di cose pericolose”. La protagonista del racconto, che si intitola “Cacciatori di fiori”, legge le memorie di Bartram e trova che la Florida dipinta in quelle pagine sia “erotica”, come appunto lo sono le cose pericolose e allettanti assieme.
Avevo in mente, prima di partire, il film Florida Project che ho visto al Beltrade di Milano credo nel 2018. Anche se è ambientato a Orlando, e gioca sul confronto disarmante fra il motel in cui vivono le protagoniste e Disneyworld, ci ho pensato quando siamo passati per Palm Beach e West Palm Beach.
La prima è un resort costruito a tavolino, con negozi di lusso sotto dei portici che ricordano la versione da centro commerciale di un paesino toscano. La seconda, un paesone squallido con delle sculture di sabbia sponsorizzate da una banca a decorare il lungomare. West Palm Beach è nata per accogliere i lavoratori di cui Henry Flagler (il magnate che ha deciso, alla fine dell’800 di trasformare l’isola in una destinazione turistica di lusso estremo) aveva bisogno per operare il suo parco giochi per adulti. Lo scontro di classe fra le palme allineate alla perfezione e le strade deserte punteggiate da pizzerie squallide è visivamente potente, come nel film.
E questa aria da provincia un po’ squallida ritorna anche in Sunshine State, una raccolta di testi di Sarah Gerard che mischia ai ricordi della sua infanzia e adolescenza un interessa giornalistico maturo per fenomeni come la conservazione ambientale e la crisi abitativa.
Gerard è nata e cresciuta nella baia di Tampa, fra Clearwater e St. Petersburg, poco più a Nord di Sarasota. C’è un lungo articolo dedicato a un santuario per uccelli, il Suncoast Seabird Sanctuary: ne approfondisce i guai legali a seguito delle appropriazioni indebite delle donazioni da parte del fondatore, un accumulatore seriale megalomane. Un altro testo è dedicato ad un eccentrico pastore, G.W. Rolle, volontario della National Coalition for the Homeless Speakers Bureau: parlando della crisi abitativa della sua zona, Pinellas County, Gerard approfondisce anche il desiderio feroce di quest’uomo di esprimersi (ha iniziato a scrivere nella sua vita precedente, in carcere) e di vedere la sua comunità più accogliente e funzionale. Nei testi più personali del libro emerge un’adolescenza acida fra pomeriggi passati a casa di ragazzi più grandi che “mettono i dischi”, sperimentazioni artistiche e droghe rimediate. Ne emerge un’atmosfera satura, una provincia assolata e vicina a spiagge caraibiche, ma pur sempre una provincia lontana da dove succedono “le cose”, in cui intrattenere la noia è una costante sfida.
Sarasota è più a Sud di Pinellas County, ma leggendo mi sembrava di ripercorrere quello che avevo visto: gated communities e country club, uno stile di vita tranquillo ma escludente, a due passi da una natura molto inospitale.
Mentre eravamo a Sarasota abbiamo fatto un giro in canoa tra le mangrovie. Le mangrovie sono una roba veramente incredibile: se un semino trova un posticino dove l’acqua non si muove troppo, come il guscio di mollusco, si piazza lì e piano paino diventa una foresta. I sedimenti che si raccolgono attorno alle prime formazioni di radici diventano la terra su cui le piante stesse si ancoreranno: si crea da sola il suo punto di appoggio. Ha un sistema per filtrare il sale in eccesso dell’acqua salmastra in cui si trova: lo accumula in delle “foglie sacrificali”, quelle più vecchie, che poi si staccano e muoiono permettendo però alle altre di assorbire solo quello che di più nutriente c’è nell’acqua. Nell’ecosistema che si forma nel suolo delle foreste di mangrovie, poi, ci sono delle comunità di batteri e virus che fanno cose che non sappiamo ma che a quanto pare sono fondamentali per il ciclo del carbonio.
Ecco quindi ancora un’altra atmosfera, possente, millenaria, autosufficiente e placida. Una transizione perfetta verso quello che mi pare di aver visto alle Keys: la natura è drasticamente più accogliente che nelle Everglades, ci sono meno insetti, il paesaggio si fa, da paludoso e asfissiante, aperto e cristallino. Il mare è ovunque, a destra e a sinistra, la strada scorre su ponte pregno di storia sotto un cielo enorme. Arrivati alla punta, più a sud non si può andare: Cuba è a 70 miglia, i galletti sono ovunque. Key West mi ha ricordato un po’ New Orleans perché è piena di festa ma sembra priva delle contraddizioni di Miami, è caciarona e sofisticata senza portarsi dietro il peso di una espansione urbana così complessa. Se Miami pulsava di modernità, sembrava un posto in costante trasformazione, Key West mi è parsa un po’ cristallizzata in una decade gloriosa, dove scrittori e intellettuali ne hanno plasmato l’identità che la sua remoteness ha poi preservato. Miami era complessa, aveva angoli sgradevoli, sembrava in costante mutamento; le Everglades erano perturbanti, misteriose, quasi non umane; la provincia era a tratti squallida, tranquilla ma classista, escludente; Key West è esotica, remota, stupenda e immacolata.
Ho letto alcune cose interessanti in questi giorni: voglio nominare, anche se velocemente, solo Java Road di Lawrence Osbrone. Ambientato a Hong Kong, segue un expat che fa il giornalista e ha un amico che appartiene ad una ricca e potente famiglia locale. Più che mai questo è un libro su un posto, e la mia ricerca di spunti su Miami e la Florida era proprio volta a questo: narrazioni o suggestioni che mi restituissero lo spirito dei luoghi in cui ero stata e mi aiutassero a collezionare altre prospettive. Non sono mai stata a Hong Kong, quindi non so se la rappresentazione che ne emerge da Java Road sarebbe soddisfacente per una turista curiosa, figurarsi per una persona nativa, ma il libro mi è parso straordinariamente evocativo. Mi sembra di essere sempre più attratta da storie che racchiudono uno spirito geograficamente ben definito, storie che ricostruiscono magari un pezzo piccolo ma preciso di una identità geograficamente definita. Invito: qual è una storia che secondo te racchiude un posto?
Sono rimasta folgorata da un’intervista in due parti (una e due) a Naomi Klein per il podcast Between The Covers: il suo ultimo libro esplora il tema del doppio, ma sono approdata al podcast perché consigliato da Jewish Currents come “a single piece of media to share with Jewish family and friends who have politics adjacent to mine but don’t quite share my perspectives”. La psicoanalisi, la politica, la poesia, la storia, sono tutte chiavi di lettura che si mischiano in questa conversazione fra due persone ebree antisioniste che centrano la loro identità ma cercano al contempo di trascenderla.
Chiudo ancora con una poesia di Mary Oliver. Sto ancora, lentamente, procedendo in Devotions, che mette insieme poesie da tutta la sua carriera, tratte da diverse raccolte. Questa si chiama In Pobiddy, Georgia (sta qui, nella mappa e si chiama così, forse, perché un poor bird non è riuscito ad attraversare un incrocio sano e salvo, come scopro leggendo qui), ed è stata pubblicata nel 1994.
Three women
climb from the car
in which they have driven slowly
into the churchyard.
They come toward us, to see
what we are doing.
What we are doing
is reading the strange,
wonderful names
of the dead.
One of the women
speaks to us—
after we speak to her.
She walks with us and shows us,
with a downward-thrust finger,
which of the dead
were her people.
She tells us
about two brothers, and an argument,
and a gun—she points
to one of the slabs
on which there is a name,
some scripture, a handful of red
plastic flowers. We ask her
about the other brother.
“Chain gang,” she says,
as you or I might say
“Des Moines,” or “New Haven.” And then,
“Look around all you want.”
The younger woman stands back, in the stiff weeds,
like a banked fire.
The third one—
the oldest human being we have ever seen in our lives—
suddenly drops to the dirt
and begins to cry. Clearly
she is blind, and clearly
she can’t rise, but they lift her, like a child,
and lead her away, across the graves, as though,
as old as anything could ever be, she was, finally,
perfectly finished, perfectly heartbroken, perfectly wild.
Un abbraccio,
Ludovica
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